Un fenomeno sociale

I nomi di Eugenio ed Enrico Canfari, Gioacchino e Alfredo Armano, Luigi Gibezzi, Umberto Malvano, Carlo Vittorio Varetti, Umberto Savoia, Domenico Donna, Carlo Ferrero, Francesco Daprà, Luigi Forlano ed Enrico Piero Molinatti, probabilmente non dicono nulla ai più, compresi tanti tifosi della vecchia Signora. Erano i ragazzi, studenti della terza e quarta classe del Liceo classico "Massimo d'Azeglio" di Torino, che nell'autunno del 1987 si ritrovavano nella vicina Piazza d'Armi per giocare a football, e che nelle lunghe chiacchierate intorno alla panchina di fronte alla pasticceria Platti verso il corso Duca di Genova, decisero di fondare un club «per gioco, per divertimento, per voglia di novità». In città alcuni inglesi avevano già fondato il F.C. Internazionale: al nuovo club, che per convenzione si assume come sorto il 1º novembre 1897, fu dato il nome di Sport-Club Juventus [vedi]. Nella ricorrenza del 90° anniversario, Gianni Brera le dedicò un bel profilo.

Non è una squadra, è un fenomeno sociale. La nobiltà le viene dagli anni, più giovane di poco ad altri club di Torino troppo esclusivi per non morire di solitudine. Il Duca degli Abruzzi esprimeva plus-calore con altri nobili che presto si vergognarono dei propri slanci plebei. Il calcio squalificava socialmente in Gran Bretagna e Scandinavia, dove era localizzabile l’élite della nuova religione sportiva. Borghesi ancora ignari unirono i propri estri snobistici chiamando pedissequamente Juventus la loro prima collusione pedatoria. Fuggivano dal calcio i principi del sangue, pudichi di un’eccessiva plebeità: restavano i borghesi in grado di declinare correttamente il più delizioso sostantivo della terza. Come giocassero è facile dedurre. Punta Pèder nacque a Milano, più coraggiosamente plebea di qualsiasi altra città. Le gentile Torino seguiva dubitosa le nanesche evoluzioni del principe sposato a un’aitante pastora dinarica; e più tardi avrebbe capito le amletiche incertezze di Umbertone secondo, sospeso fra Josè, la mandrogna Wally, che mai ricevette un buffetto, e gli eroi d’una cavalleria ancora montata sui maremmani. La gentile Torino spasimava per le rozze grandigie d’un popolo artigiano e contadino che inglesi ed europei centro-nordici stavano riportando all'industria.

Alcuni dei fondatori dello Sport-Club Juventus nel 1898:
la prima maglia della squadra era rosa, con cravatta o papillon nero;
solo dal 1903 divenne bianconera
La Juventus fu sempre vagamente odorosa di privilegio sociale. Gli aristòcrati si beavano del Torino plebeo (esattamente come al Milan): a mezzo fra loro e la plebs usavano profondere slanci plus-calorici i borghesi colpevoli della retorica Juve. Gli scudetti anteguerra (la prima) erano omaggi alla pacata riconversione dell’Italia africana in schietta Europa. I britannici in esilio a Genova; gli agricoltori aspri e virili di Vercelli; i transfughi torinesi di Casale, sede di un forte presidio militare. Poi il quadrilatero, simbolo di progresso economico-sociale: e infine il Torino, presidiato da nobili alteri (ma spensierati alquanto). I trionfanti Agnelli vengono intrigati a moderar lo scettro del vermouth. La preghiera è fascista, e quindi va presa per un ordine preciso. Il conte Marone Cinzano acquista Allemandi in occasione del derby e ad allargare le gambe è Virgilio Rosetta da Vercelli (non un Cato scripsit Ligurum, sed Gallorum). L’onesto Arpinati da Bologna ha pudore di aver già sottratto uno scudetto al Genoa (‘25): lascia prima la Juve nel ‘26 ma non ha il coraggio di favorire nuovamente il Bologna squalificando il Torino. La Juventus ha plaudito e plaude alla severità dei giudici pedatòri (Allemandi squalificato a vita) finché non aggalla una possibile responsabilità di Rosetta, costato qualcosa come 50.000 lire. Il Torino si vendica nel ‘28 giocando il calcio più bello (nei confini italioti). Esprime il genio di un alessandrino che invece è di Caselle: Dolfo Baloncieri. La rabbia juventina è contenuta come esige l’educazione dell’ambiente. Don Edoardo Agnelli sforna figli educati come principi, e auto trattate anche meglio, con il più vieto dei protezionismi. I soldi son, ma chi pon mano ad elli? La rima è troppo facile, abrenuntio.

I giochi amsterdamiti (sissignori) esaltano gli uruguagi, astuti e sparagnini. L’Argentina è quasi tutta spagnola per tronfiaggine e perde la finale. Si vede tuttavia Mumo Orsi, longilineo tappo di spumante pregiato. Viene in Italia per settemila il mese, la casa arredata e l’auto con chauffeur. Aspetta un anno, transfuga dichiarato. Poi esordisce con sfracelli autentici. L’Inter sorprende tutti con un Weiss già cosciente di spazi e marcature: Meazza usa scattare fra bisonti che fra loro s’incornano, i terzini. Poi succede che Monti, troppo grasso e greve, abbandoni il calcio giocato. Cesarini lo avverte: vieni in Italia, dove calciar non sanno. Nasce una Juventus di spirito uruguagio: la difesa più forte e più protetta: un centrocampo nel quale oscilla un cannone di lunga gittata quale Monti. Poi le invenzioni in attacco, e Borellino. Carcano, gran filosofo del muscolo, diligit pueros come almeno un paio di grandi juventini: ma conviene che scandala eveniant. L’Italia ha scelto ormai la sua fidanzata. Italo Pietra, di antico ceppo alemanno, confessa di aver preso parte alla colletta per regalare un orologio d’oro a Giovanni Ferrari, che a Brescia ha preso un pugno senza minimamente reagire: non squalificato, segnò il gol dello scudetto a Firenze la seguente domenica. Ferrari era figlio della dozzinante che ospitava Carcano ad Alessandria della paglia. Carcano, affettuoso maestro, portò Giovannino alla Juve. Quinquennio memorabile, nel fatidico e ricorrente ventennio italiota (Annibale, Napoleone, Mussolini). Mumo Orsi ci fa capire perché sia fuggito suo nonno: riempie di sesterzi la valigia e fa la stessa strada, certo più comoda (1935).

L'XI campione d'Italia nel 1949-1950
In piedi (da sinistra): Præst, Manente, Mari, Bertuccelli, Viola, Piccinini.
Accosciati: J. Hansen, Muccinelli, Boniperti, Martino e il capitano Parola
Don Edoardo Agnelli perde la vita volando in un paese ancora fermo al casto asinello. La Juventus decade. Trionfano i rivali di altre contrade. Ma il carisma è fatto e rimane. Il tifoso juventino è borghese o aspirante borghese. Si manifesta dove un capoluogo abbia da farsi perdonare nequizie medioevali. Fuor dal Piemonte, i più devoti juventini sono lombardi, e ancora emiliani di Romagna. Se c’entri anche il Re sabaudo non so dire. Fatto è che la "Juventinitas" è un sentimento che fa casta. Io spesso ironizzo chiamando Thugs i devoti della dea Kahlì: ma sotto sotto li invidio. Hanno un garbo, una certezza, un piglio che non sempre si scopre. Una volta sola, in trent'anni, Giacomo Romanini si scusa d’un risicato 2-1 sull'Inter ma poi, cosa incredibile, mi face gomitello. Ciappa su e porta a ca’. Conquisto don Giovanni, già ridotto al meccano nelle gambe, sostenendo davanti a suo fratello che la Juve più bella era quella di John Hansen e Martino, di Muccinelli e Boniperti (il sommo), che anticipava il catenaccio all'insaputa di Carver, pizzardone di Cardiff. Il fratello Umbertino inventa Sivori e Charles. Mobilia Ferrario le impone il catenaccio dopo un inglorioso 6-1 a Bologna. Fu una Juventus grande, capace di limitar lo scettro a una potenza come quella del Milan. Poi maturò Gian Pierin Boniperti come manager fedele a don Giovanni, gaudiosa primadonna del tifo.

La Juventus fa tutti secchi: è quella che sappiamo, che ammiriamo e invidiamo secondo indole. Ha novant'anni, è bella e sa rinascere quando amore la ispira e ditta dentro. Non è, ripeto, una squadra, è un fenomeno sociale. In quattro umili cartelline puoi solo abbozzarne il profilo puro e bello. Se tu l’ami ti basti. Se non l’ami, dichiara almeno di doverla ammirare come si merita.

Gianni Brera, "La Repubblica", 31 ottobre 1987