Gloria al Napoli e alla sua gente



Il 10 maggio 1987, pareggiando in casa contro la Fiorentina, il Napoli si cuce per la prima volta lo scudetto tricolore sul petto. E' la squadra del Diego, di un ciclo che porterà altre vittorie mai più assaporate nella città partenopea. Ne canta la conquista, con la sua prosa tipica (e i suoi argomenti tipici) Gianni Brera.
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In alto le bandiere e i canti per il Napoli campione d' Italia. Ha impiegato ben sessant'anni per attuare questa insigne conquista. La lunga attesa aveva spesso frustrato i napoletani: hanno, per fortuna, sempre saputo reagire con ammirevole coraggio. Adesso, con patetico candore, festeggiano l'evento in un paradosso di gioia. Sul piano geopolitico, la vittoria del Napoli trascende il fatto sportivo e chiama a rallegrarsene l'intero Sud del Paese. Il campionato nazionale ha quasi cento anni ma non era mai accaduto che lo vincesse una squadra meridionale. Il Cagliari faceva sorprendente eccezione nel suo misterioso limbo etnico. Quello scudetto 1970 riportava definitivamente in Italia un'isola altrimenti famosa per i suoi morti eroici e per i suoi pastori antiquati e ribelli. 

A spiegare la accanita latitanza napoletana dal libro d'oro, tutti gli argomenti possibili, non esclusi i luoghi comuni. Innanzi tutto, la natura tachipsichica e spesso labile della gente; le tare morfologiche accumulate in lunghi secoli, che dico?, millenni di fame, la paradossale incidenza del clima, troppo mite e ancor più diseguale per favorire il mantenimento della condizione atletica; infine l'incultura, l'incompetenza, la scarsa educazione sportiva delle masse. Che si ricordi, in tutti gli Anni Trenta, che furono i più larghi di risultati, un solo meridionale era approdato alla nazionale azzurra, un barese di nome Costantino. I borghesi giochicchiavano a calcio senza la spinta del bisogno economico e i poveri non avevano sufficienti calorie per aggiungere l'agonismo al lavoro quotidiano. Il ritardo del profondo Sud sulla Valle Padana era di quasi cinquant' anni, in fatto di pedate e di cultura sportiva (con la sola eccezione di certi sport di èlite, come la pallanuoto e il canottaggio). 

Achille Lauro, il 'comandante'
Oggi la affermazione del Napoli vale ad abbattere tabù considerati prima dannatamente insuperabili. Non è arrischiato dire che per certi traguardi vale la prima volta. Quanti Tours de France non avrebbe vinto Alfredo Binda, se la scienza medica avesse meglio soccorso lo sport, definendo i ben più estesi limiti della fatica atletica? La domanda non è peregrina. Quanti anni sono stati perduti a Napoli, nella convinzione - in alcuni fermissima - che non fosse possibile sottrarre una squadra calcistica alle insidie del clima afro-mediterraneo? Quante gratuite umiliazioni sono state sofferte con la disinvoltura morale di chi si fermava di fronte a difficoltà obiettivamente ritenute insormontabili? Eraldo Monzeglio, probo tennista littorio, grande battitore di palle ai suoi bei dì, aveva lasciato Napoli nella sconsolata convinzione che mai nulla di buono sarebbe stato possibile in quell'ambiente allegro e sciagurato, superficiale e triste, in cui la fame ereditaria si alleava all'ignoranza e alla jattante presunzione. Il favoloso Comandante prolungò la sua ombra sul novissimo San Paolo. Si era servito della pedata per alimentare sogni grotteschi, velleità delittuose. Fallito un traguardo, seguivano frustrazioni lunghe e penose, che portavano sfiducia e ribellione molesta.

Il Petisso
Nell'atteggiamento di certi tecnici importati era evidente il sospetto di trovarsi in una incongrua colonia. Ricordo perfettamente cosa mi disse Pesaola di Janich: "Questo ragasso sciocco farfugliava il napoletano divertendosi un mondo: non si accorgeva che sarebbe stato credibile nel solo caso che parlasse con il suo accento del nord. Così ho dovuto dirglielo io...". Chi mi stava parlando era un oriundo portoghese con gli occhi bovini e tristi dell'ibero antico: furbo era, ma mi tornava strano che Napoli anzi i napoletani gli offrissero spunti del genere. Parlava in realtà da buono psicologo, però da vichingo al cospetto di una tribù di ottentotti. 

Forse proprio questa era la Napoli d'antan. E la stampa era degna della sua candida e primitiva innocenza. Molte dolorose cadute vennero causate da inghippi vergognosi, altre da fallimentari campagne condotte all'insegna della più crassa incompetenza. Per non averne fastidio, non dico mortificazione, si ignorava bellamente la realtà. Annibale Frossi tentò invano di instaurare a Napoli un modulo all'italiana. Il pubblico, sprovveduto e passionale, indusse Lauro a licenziarlo dopo le prime prove sfortunate. A costringervi Lauro fu un cronista che la pensava come l'uomo della strada e giusto in omaggio ai suoi pensamenti avrebbe portato un quotidiano sportivo a tirature mostruose ... 

Corrado Ferlaino
Poi incominciò ad allinearsi anche la stampa. I cronisti locali capirono il calcio e riuscirono ad imporne i principi tecnico-tattici. Corrado Ferlaino si giovò anche di loro per attuare la sorprendente inversione di tendenza. Ottavio Bianchi si trovò a dover sentire, sgomento, assordanti raffiche di fischi, sibilati per disapprovare un normale tocco all'indietro, un indugio tattico in attesa del momento più propizio per attaccare: ed era il Napoli, l'amatissimo Napoli a intraprendere quegli schemi, non una squadra foresta, come tale destinata a subire i sentimenti contrari della gente. Ottavio Bianchi era stato giocatore a Napoli e aveva conosciuto sopra se medesimo le ammorbanti influenze d'un tepore più adatto ai poeti e agli amanti che non agli atleti; aveva imparato a spiegarsi le reazioni d'una folla incredibilmente bambina, tale da riempire di botti lo stadio, non solo, ma da cercare un segnalinee o un giocatore ospite come indebito bersaglio. A tavolino, il malefico Nord si faceva sentire il mercoledì nelle caste sentenze di Albertino Barbè. Il vittimismo era complicato da rabbie astruse, da gesti inconsulti, da innominabili avversioni che le frustrazioni continue riducevano immancabilmente ad inferioty complex. Intendiamoci, le malversazioni del tifoso napoletano erano le stesse perpetrate dal suo fratello-rivale del Nord, con la differenza che erano più ingenue, meno maligne. 

Bianchi e Diego
Ricordando tutto questo, Ottavio Bianchi ha pilotato come uno che tiri a proposito la cloche quando serve impennare e prema in giusta misura sui pedali quando serve la virata ad hoc. La conduzione del Napoli è stata esemplare. Se aveva paura che tutto saltasse in aria, e l'aveva di certo, Bianchi ha tenuto per sè, virilmente, quella paura. Ai suoi ha sempre parlato con rude e pur compita franchezza. Da ultimo la squadra ha malamente beccheggiato. Maradona ha cercato scampo negli affetti famigliari. Fosse pure scappato con una donna, avremmo dovuto dedurne che l'aveva fatto per sopravvivere. Spesso certe perdizioni sono semplici effetti: le cause vanno ricercate nell'insolito impegno, nell'usura psico-fisica. Negli ultimi tempi Maradona è sceso in campo con la sola armatura: dentro non c' era Achille, bensì il suo labile ectoplasma. E Bianchi ha continuato la guerra con quel magno simbolo a sfavillare falso: tutti gli altri, per fortuna, si sono battuti fino allo stremo. Il Napoli dell' apoteosi non è riuscito a superare la trepida Fiorentina. Nessuno se n'è stupito. La radio aveva già dettato da Bergamo le coordinate per il tiro. Chiunque abbia un sano concetto dello sport e voglia bene, senza vane smancerie, al suo Paese, non può non dirsi lieto della vittoria del Napoli. Essa proclama con palmare evidenza la giusta e attesa riscossa del Sud. In alto le bandiere e i canti per il Napoli campione d' Italia.

Gianni Brera