Il mito del Torino

6 maggio 1949: Torino saluta i suoi figli, in una cerimonia partecipata da folla immensa. Sui giornali l'inchiostro scorre incessantemente, tra cronaca e dolore.



Riproponiamo qui l'orazione funebre destinata alla prima pagina del Corriere dello Sport dal suo direttore, Bruno Roghi. Forse per la prima volta, in questo discorso di necessaria circostanza e stilisticamente non impeccabile, compare la nozione di mito associata alla realtà di un'esperienza di sport precocemente interrotta.


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Il giornalista sportivo crede di avere il privilegio di non dover scrivere mai di disgrazie. Il suo mondo è gaio, è un mondo dove non si muore mai, o si muore tardi e bene lasciando dietro la morte il racconto patetico di una vita spesa lietamente tra campi e palestre. La grande disgrazia - quella che è accaduta nel cielo di Torino - aggredisce alle spalle il giornalista sportivo che non si aspetta l'agguato della malasorte, neppure riuscendo a concepirlo.

Bisogna ritrovare l'ordine narrativo delle cose e dei pensieri che è abbastanza facile per chi ha l'amara consuetudine professionale delle cronache luttuose,, ma che è penosamente arduo per il giornalista sportivo, indifeso contro il fiotto tempestoso delle sventure.


Troppo e troppi, sono state le stupide parole che si sono impadronite per lunghe ore del nostro cervello, quasi bloccandolo. Mai la fatica è stata peggiore di quella da noi sofferta al telefono, la sera della tragedia, per dettare alcune righe di raccapriccio e di dolore. Troppo e troppi. Noi siamo preparati alla morte unica, solitaria. Il cordoglio si concentra in una figura è tutto per essa, si espande consolando l'anima, ha il suo conforto nel gioco dei ricordi e ha il suo sfogo nel pianto che tempra lo strazio.
Ma noi non siamo preparati alla morte numerosa, repentina e simultanea. E' come in guerra quando, alla fine di un assalto sanguinoso, si contano i superstiti per conoscere il numero dei caduti. Anche l'ufficiale più buono non riesce ad isolare e a sommare le sue sofferenze per quanti soldati gli sono morti nel combattimento. Il numero alto ha qualcosa di arido e di sinistro. E' un numero eterno ed immobile. La morte numerosa, repentina e simultanea gela il sangue e la mente del sopravvissuto che la deve celebrare. Ne fossero morti uno, due, tre, della comitiva volante, il cuore suggerirebbe facilmente, umanamente i temi della rievocazione e della commemorazione. Invece sono morti tutti, come se dalla gola del Destino sia esploso, in una notte di tempesta e di tregenda, l'urlo di una jungla impossibile, assurda.
Per una resistenza inspiegabile dello spirito ci sembra sacrilegio soffermarci sui nomi dei Caduti, l'uno dopo l'altro, in ordine di età o di alfabeto o di mansioni, secondo una gerarchia di allineamento che non ha nulla che la possa sostituire nell'ordine razionale del nostro linguaggio. Anche la pietà degli uomini, dovendo venire a patti con le esigenze del nostro modo di vivere e di morire, dovrà allineare, l'una dopo l'altra, le molte bare del funerale, ognuna delle quali conterrà una salma. Invece lassù, contro lo zoccolo della Basilica, sono morti tutti insieme, contemporaneamente, l'uno accanto all'altro: e non c'è parola, sentimento, maledizione, pianto, preghiera che possano esprimere questa contemporaneità e questa totalità.


Resta nel nostro subcosciente l'ombra di un sicario, colpevole di tutto per la nessuna colpa di nessuno, dei morti e dei vivi. Questa ombra è l'ombra della macchina, questa 'cosa' orrenda e sublime che l'uomo ha strappato ai segreti della natura, con la superbia sciagurata di Prometeo che strappa alla divinità il segreto del fuoco. Noi l'abbiamo inventata, la macchina, e crediamo di dominarla, perfino di avere in essa lo strumento orgoglioso del progresso e della felicità degli uomini. Invece il Destino ironicamente ci rammenta, nell'ora che vuole lui, che la macchina, quando vuole lui, è morte e dolore. La vendetta cieca e atroce della macchina sull'uomo è il fantasma rimasto nel cielo di Torino nel quale i fati avevano attinto, nel momento orribile, la pioggia lugubre e la nebbia perfida, affinché gli uomini in terra non vedessero il delitto che si consumava, ma ne udissero soltanto il rombo apocalittico.

Domani tutto riprenderà il suo ritmo perché la vita si volta appena per guardare, contare e salutare i suoi morti. Quanti bimbi sono nati nel mondo nell'ora della morte del Torino?
Tutto riprenderà a scorrere, ma nessuno potrà mai dimenticare che nella notte del 4 maggio una enorme statua bianca si è levata nel mezzo della deserta arena immaginaria dello sport italiano. La statua, gagliarda e possente in tutte le sue membra, era una statua acefala. La statua dello sport italiano non aveva più la sua testa eretta e fiera. Le era ruzzolata ai piedi, troncata da un colpo di mazza calato dalle nuvole. Senza il Torino, la statua dello sport italiano era improvvisamente morta. Si era spento il suo sguardo.


Ora io vado cercando affannosamente le ragioni occulte della tragedia, pur sapendo che la ragione umana ha una gittata che non supera quella di un sasso lanciato da un bambino, e tutto il resto è mistero. Ma mi sia consentito di domandarmi perché - anche questo deve essere detto - l'ultima partita del Torino, dopo la conquista virtuale del suo nuovo campionato, dovesse coincidere con una sconfitta, e l'ultimo racconto dei giornalisti, doviziosamente preparati a cantare l'inno della squadra diletta, dovesse essere scritto in tono minore.
Sono sciocchezze, perfino leggermente macabre, lo so. Sappiamo tutti benissimo che un 'Torino' poteva permettersi la distrazione, in una gita sportiva di piacere, di perdere una gara di limitatissimo rilievo; e sappiamo ancor meglio che, sorvolato il resoconto della perduta partita lisbonese, basterà sfogliare a ritroso qualche pagina di un giornale per ritrovare un tutto Casalbore, un tutto Tosatti, felicissimi cantori e dosatissimi critici delle imprese della squadra granata.
Tuttavia quella sconfitta e quei racconti in sordina restano nella cronaca spaventosa dell'evento. Insignificanti e labili se la squadra avesse potuto riprendere, dopo la fugace parentesi lisbonese, l'ormai facile ciclo delle sue partite di campionato, quella sconfitta e quei racconti hanno per noi, oggi, il valore di un presagio, il segno di una predestinazione. Annaspanti e e sperduti tra due infiniti, l'infinito delle culle e l'infinito delle tombe, forti soltanto di una  fede che mai tanto soccorre e deve soccorrere l'anima come quando i fatti inesplicabili la soggiogano, quel presagio ci sgomenta, quella predestinazione ci accascia.

Il Torino è morto e lo seppelliscono tutto insieme. E' scomparsa una squadra che, costruita pazientemente pezzo per pezzo, aveva perduto le disuguaglianze, le asperità e le eterogeneità del mosaico per comporsi nell'unità dell'opera d'arte. La mano dell'artefice, compiuto il suo lavoro, si era sollevata di quel tanto che era necessario per assegnare all'opera creata la sua autonomia, la sua vitalità, il suo stile e il suo splendore. Contava in essa meno la struttura del gioco che l'ispirazione che aveva creato e guidava quel gioco.

Perciò il Torino, il Torino scomparso, non era soltanto una grande squadra che diventava invincibile nel momento stesso in cui le rivali maggiori si cullavano nella vana speranza di vincerla, ma era un vessillo, e più che un vessillo era una scuola, e più che una scuola era un'idea. Dicendo Torino si diceva qualcosa che usciva dal perimetro dei campi di calcio, e stabiliva il punto di riferimento di ogni eccellenza. Era la squadra-tipo, la squadra magistrale, anche nel significato didattico che l'aggettivo comporta. Ed era la squadra-mèta: la mèta di tutti gli atleti che sognavano la fama, di tutti i dirigenti che sentivano il morso della emulazione, di tutte le folle che volevano il grande spettacolo.
La retorica onesta e tradizionale delle commemorazioni vuole che i morti rivivano quasi che gli occhi che li piangono e le menti che li ricordano abbiano la virtù soprannaturale di restituire il sangue a coloro che l'hanno perduto. I morti, invece, vanno lontano, straordinariamente lontano. Non si voltano indietro. Ma non muoiono tutti, se sono degli artisti. La fiducia ebbra di Orazio vale anche per gli artisti della squadra granata.
Hanno lasciato un vuoto enorme, hanno lasciato dietro di loro sgomento, lacrime, lutti, e negli sportivi una nostalgia senza rimedio. Ma hanno anche lasciato una traccia luminosa, che non si spegnerà, un solco profondo che non inaridirà. La squadra morta del Torino ha lasciato dietro di sé la scuola viva del Torino. C'è quella traccia luminosa e c'è quel solco profondo. I ragazzi del Torino, quelli di oggi e quelli di domani, conoscono la via. Dalle ceneri del rogo il nuovo Torino rinascerà, come la Fenice della leggenda. Il giorno in cui la nuova squadra del Torino sarà rinata, la squadra morta sarà immortale, come il mito dei Greci.

Bruno Roghi, Il Corriere dello Sport, 6 maggio 1949, pagine 1-2